Alla scoperta dello street food d’Italia

A volte gli interni di design, le splendide cornici, la musica soffusa e le maniere impeccabili dei camerieri non bastano a placare la fame e, per assurdo, anche se il nostro ristorante preferito ci propone portate incredibilmente elaborate, tutto quello che il nostro stomaco va cercando è qualcosa di piccolo, goloso, da tenere nel palmo di una mano.

È una fortuna, allora, trovarsi in Italia, perché è qui che c’è la maggior concentrazione di “sfizi” da asporto, che grazie all’onnipresente inglese oggi chiamiamo street food. Tra festival dedicati, ricette depositate e chef che hanno dedicato la loro vita a questi prodotti umili ma sazianti (Gabriele Bonci per esempio, o Stefano Callegari) non bisogna cadere in errore: lo street food non è necessariamente quello che si mangia in piedi, di corsa, magari davanti al bancone del bar. Le ricette di questi manicaretti sono per lo più antichissime, e hanno poco a che fare con sandwich e tramezzini.

Conoscerli e gustarli è come seguire una lezione di storia, geografia e antropologia italiane, e in questo focus proveremo a raccontarne le fortune.

Da dove nasce lo street food

Parlando in generale, tutto il cibo da strada è frutto di un’alimentazione povera, basato su pochi ingredienti e da mangiare in pochi minuti.

Secondo gli storici i primi esempi di cibo da asporto si trovano nell’antica Grecia, quando venivano offerte schiacciate di farina di grano o zuppe di legumi in cambio di pochi soldi a chi era in viaggio, in contrasto coi sontuosi banchetti dell’epoca che potevano durare anche diversi giorni.

Questa “invenzione” ha viaggiato per tutto il Mediterraneo e oltre, venendo declinata in modi diversi a seconda degli ingredienti presenti presso le varie culture, ma noi conosciamo bene il fenomeno dei thermopolia, ritrovati anche di recente a Pompei o Ercolano: pensiamoli come l’equivalente romano dei furgoncini nei quali oggi si friggono olive ascolane, pallotte cacio e ova o panelle…

Da nord a sud, ogni regione ha il suo street food

Alcune di quelle ricette antiche sono arrivate fino a noi: è il caso della torta al testo umbra, che è letteralmente cucinata ancora come si faceva nell’antica Roma. Così anche la sua “cugina” romagnola, la piadina. Altre invenzioni, come il trapizzino del già citato Stefano Callegari, sono assolutamente moderne.

In mezzo ci sono un’infinità di specialità, spesso completamente sconosciute anche solo una volta superata la linea di confine della propria regione, alle quali si deve rispetto: dal supplì al filetto di baccalà, dai panzerotti agli arrosticini, queste leccornie da mangiare al volo hanno una storia millenaria, ma anche quando sono un’invenzione relativamente più recente sono il frutto di vicende anche drammatiche.

Pensiamo al pane ca’ meusa, nato a Palermo tra i macellai di religione ebraica che trattenevano per sé come pagamento le interiora degli animali la cui carne più pregiata andava nelle case dei ricchi cristiani: la loro ricompensa divenne una pietanza prelibata, mangiata ancora oggi agli angoli di strada, ma tanto gusto nasconde segregazione e violenza. Pensiamoci mentre mastichiamo queste e altre delizie!


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